Se non fermiamo gli allevamenti intensivi, il pollo che mangiamo ogni giorno farà scoppiare la nuova pandemia

Gli allevamenti intensivi non sono solo il luogo di enormi sofferenze per gli animali, ma responsabili di distruzione ambientale, e sì, anche del diffondersi di agenti patogeni pericolosi: il virus H5N1, responsabile dell’influenza aviaria, ha già fatto una strage di uccelli e si sta diffondendo in altri mammiferi. La paura che possa scoppiare un’altra pandemia si fa sempre più realistica.

La  Compassion in World Farming (CIWF) ha lanciato l’allarme a seguito di inquietanti segnalazioni di casi di influenza aviaria in luoghi remoti come l’Antartide. Il virus è già mutato dagli uccelli a mammiferi come lontre, volpi, orsi e procioni, oltre che foche e leoni marini.

E si stima che dall’ottobre 2021 il virus abbia provocato la morte di 140 milioni di volatili a livello globale – inclusi 48 milioni di uccelli in Europa e circa 53 milioni negli Stati Uniti – causando danni all’agricoltura e all’ambiente.

La pandemia da Covid-19 non ci ha insegnato nulla: distruggere la natura non può mai essere un bene. Molte ricerche indicano che la “bomba” è esplosa nei famigerati mercati umidi di Wuhan, ma, a prescindere dal singolo caso, un numero sempre maggiore di studi scientifici indicano che entrare con la nostra prepotenza in zone del Pianeta in zone che non ci appartengono può liberare agenti patogeni per noi.

Un lavoro del 2021 guidato dal nostro Politecnico di Milano – tanto per citare un esempio – indica che la trasmissione dei coronavirus dai pipistrelli all’uomo è più facile dove le foreste vengono distrutte per fare spazio agli allevamenti.

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Deforestazione e allevamenti intensivi

Distruggere le foreste, infatti, è distruggere il nostro “antivirus”, il cibo e la casa di moltissime specie che all’improvviso si trovano sole e “denutrite”. E che, soprattutto, si trovano a contatto all’improvviso con una specie a loro sconosciuta, l’uomo, con la quale quindi non esiste alcuna strategia di convivenza pacifica, perché la natura non aveva previsto tale convivenza.

Con risultati imprevedibili e a volte disastrosi, incluse pandemie globali. Lo spillover, ovvero il salto di specie, il meccanismo biologico con il quale i virus non umani mutano riuscendo a replicarsi nella cellula umana, infettandola, potrebbe essere uno di questi.

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Continuare con gli allevamenti intensivi per rispondere ai nostri (presunti) bisogni non fa altro che peggiorare le cose: questi luoghi di morte, infatti, sono uno dei principali responsabili dei cambiamenti climatici e il posto dove un qualsiasi agente patogeno può diffondersi velocemente e imparare presto a sopravvivere in cellule diverse, incluse quelle umane.

E no, non lo diciamo soltanto noi, la dice la comunità scientifica.

Come riportato in un editoriale pubblicato a ottobre 2022 su Science, la fiorente produzione mondiale e il commercio di animali da allevamento rappresenta una crescente minaccia di malattie infettive per la fauna selvatica.

A livello globale, negli ultimi 50 anni, la popolazione di pollame è cresciuta di 6,1 volte, passando da 5,71 a 35,07 miliardi; di suini, 1,7 volte da 547,17 a 952,63 milioni; e di bestiame, 1,4 volte da 1,08 a 1,53 miliardi.

Queste grandi popolazioni di bestiame, collegate attraverso il commercio, formano serbatoi in cui le malattie infettive possono evolversi e riversarsi nella fauna selvatica, a volte con conseguenze devastanti

scrivono gli autori

Alcuni esempi?

Nel 2016-2017, il virus peste si è diffuso dal bestiame all’antilope saiga, uccidendo l’80% di questa specie in pericolo di estinzione in Mongolia. Dal 2007, il virus della peste suina africana si è diffuso in Europa e in Asia attraverso il commercio di suini e prodotti a base di carne suina, estendendosi ai cinghiali e minacciando specie in via di estinzione di suidi selvatici nel sud-est asiatico.

Altri casi includono i batteri Mycoplasma gallisepticum dal pollame ai fringuelli domestici e altri uccelli canori in Nord America e i batteri Mycobacterium bovis dai bovini ai mammiferi selvatici in tutto il mondo.

I dati dell’influenza aviaria

allevamenti intensivi influenza aviaria

©FAO

Secondo i dati epidemiologici del Centro di referenza nazionale ed europeo per l’influenza aviaria presso l’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie (IZSVe), in Italia la circolazione del virus H5N1 fra gli uccelli selvatici è in aumento, con il rischio che questi possano trasmettere il virus agli allevamenti avicoli.

Il ministero della Salute ha diramato pochi giorni fa una nota, indirizzata a tutti i Servizi veterinari regionali e agli Istituti Zooprofilattici italiani – si legge in un comunicato dello stesso Istituto – in cui ravvisa la necessità di rafforzare la sorveglianza dei volatili selvatici e l’applicazione delle misure di biosicurezza negli allevamenti avicoli.

La diffusione del ceppo H5N1 HPAI fra gli uccelli selvatici è in aumento, in Italia come nel resto del mondo – spiega Calogero Terregino, direttore del Centro di referenza per l’influenza aviaria – […] Il ministero della Salute ha evidenziato come tale situazione costituisca un rischio costante per gli allevamenti di volatili domestici, considerato che alcune zone ad elevata densità avicola coincidono con le aree dove attualmente si rilevano casi di HPAI nei selvatici

E già nel 2020 si segnalavano casi umani: secondo quanto riportato dall’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), negli ultimi 20 anni,  sono stati confermati quasi 870 casi di infezione umana da virus dell’influenza aviaria H5N1 in 21 Paesi, dei quali 457 fatali. E gli esperti mettono in guardia sul recente cambio significativo nella diffusione dell’infezione.

La situazione negli allevamenti intensivi avicoli

Data la velocità con cui si diffonde da esemplare a esemplare all’interno dei sovraffollati allevamenti avicoli intensivi, si pensa che il virus abbia avuto origine  proprio negli allevamenti intensivi in Asia – riporta la CIWF – Il settore avicolo intensivo, in cui migliaia di volatili sono ammassati in capannoni, fornisce al virus un costante ricambio di nuovi ospiti, potendo questo circolare velocemente fra i volatili, con la possibilità che muti nel processo. In queste condizioni, è verosimile che emergano delle varianti estremamente virulente. La malattia passa quindi ai volatili selvatici e crea un circolo vizioso fra allevamenti e fauna selvatica, diffondendosi velocemente a livello globale. E alcune di queste nuove varianti possono infettare i mammiferi

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Manca ancora la trasmissibilità da uomo a uomo, ma manca davvero poco secondo gli esperti.

Questa preoccupante situazione sta rapidamente andando fuori controllo e rappresenta una seria minaccia per la salute umana globale – avverte Philip Lymbery, direttore globale di CWF – Mancano poche mutazioni perché inizi a diffondersi da persona a persona. Se vogliamo avere una possibilità di fermare questa crisi dobbiamo trarre insegnamento dalla pandemia Covid-19. Dobbiamo agire prima che sia troppo tardi, e questo significa riformare urgentemente il settore avicolo a livello mondiale – abbandonando i sistemi intensivi che costituiscono un terreno fertile per la comparsa di nuovi e più letali ceppi di virus

allevamenti intensivi influenza aviaria

©davit85/123rf

Cosa possiamo fare noi?

Tutto risiede nei nostri “presunti bisogni”: il consumo di carne (di tutti i generi) è responsabile di tutto questo e gli allevamenti intensivi nascono dalla necessità di soddisfare le richieste le quali, complice anche l’aumento della popolazione terrestre, stanno avvelenando il Pianeta.

Dare più spazio ai volatili implica una riduzione della produzione di carne e di uova : per questo le persone possono fare la propria parte riducendo il consumo eccessivo di alimenti di origine animale – spiega la CWF – Ciò comporterà numerosi altri benefici, tra cui maggiori possibilità di raggiungere gli obiettivi di Parigi sul clima e una riduzione dell’uso di soia e cereali, come grano e mais, come mangime per gli animali allevati

La carne ha infatti un’impronta ambientale e climatica molto più ampia e negativa rispetto agli alimenti di origine vegetale. Un recente studio condotto da Annual Reports indica che ogni cittadino europeo consuma in media 80 kg di carne all’anno.

Ecco, lo stesso studio dimostra che se in tutti i Paesi del mondo i cittadini consumassero tali esorbitanti quantità, sarebbe praticamente impossibile raggiungere gli obiettivi climatici siglati dagli Accordi di Parigi (2015), ovvero quello di contenere l’aumento delle temperature entro +1,5°C per fine secolo.

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Purtroppo siamo di fronte ad un terribile “circolo vizioso”: continuare a chiedere carne significa “nutrire” il bisogno di allevamenti intensivi, i principali responsabili di danni ambientali e di salute. E no, non possiamo più nasconderci, i dati sono qui. Se poi scoppierà davvero un’altra pandemia non sarà colpa del fato, di presunti errori di laboratorio o di ancora più improbabili complotti. Sarà solo colpa nostra.

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Fonti: Compassion in World Farming / Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie / Science / FAO  

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