Fase 2 e paura di uscire: esiste davvero la sindrome della capanna?

Ognuno di noi reagisce in modo diverso alle situazioni di stress, ed è logico aspettarsi che, con l’allentamento delle misure atte ad evitare il contagio da coronavirus ed un parziale ritorno alla socialità, stia avvenendo lo stesso. Se molte persone hanno contato i giorni che ci separavano dalla riapertura di parchi e attività, e non esitano a spostarsi come facevano prima, per alcuni il recupero delle normali abitudini non sarà così automatico e richiederà più tempo. A questo proposito, nelle ultime settimane è stata spesso citata la sindrome della capanna, che comporterebbe la voglia di restare nella propria abitazione, o all’interno di un generico luogo chiuso in cui si è trascorso parecchio tempo e che è percepito come sicuro rispetto al mondo esterno. Abbiamo chiesto alla dottoressa Chiara Bastelli, psicologa e psicoterapeuta, se ci sono evidenze scientifiche di questo fenomeno, e quali sono le fasce di popolazione più esposte alle ripercussioni psicologiche dell’isolamento da quarantena.

Che cos’è la sindrome della capanna?

Le prime testimonianze in merito risalgono al XX secolo: si è parlato di sindrome della capanna o del prigioniero, infatti, in seguito alla ben nota corsa all’oro negli Stati Uniti, quando molte persone trascorrevano un lungo periodo nell’isolamento più totale. Nel “selvaggio west” i cercatori d’oro potevano contare soltanto su loro stessi e vivevano in baracche o capanne, lontani da qualunque insediamento e senza avere contatti con altre persone per mesi. Molti di loro si dimostrarono poi riluttanti a rientrare nella società, mostravano diffidenza nei confronti del prossimo e preferivano continuare a vivere contando solo sulle proprie risorse. 

Famiglia in quarantena

La sindrome della capanna potrebbe inoltre manifestarsi anche dopo lunghi periodi di malattia, e in generale in tutte le situazioni in cui si trascorra più tempo del solito in un unico ambiente chiuso. Nella situazione che abbiamo appena vissuto, per esempio, per alcune persone uscire potrebbe essere traumatico perché espone alla paura e al rischio del contagio, che nella propria abitazione sono assenti. L’ambiente esterno, inoltre, così come le relazioni sociali che in esso si realizzano quotidianamente, sono state modificate dai regolamenti che impongono il distanziamento fisico, l’uso di mascherine e guanti, e altre misure di sicurezza: per alcuni, potrebbe risultare difficile e non immediato riconoscere in questa nuova realtà (seppure momentanea) il ‘fuori’ a cui erano solitamente abituati e nel quale conducevano la vita di sempre.

Il parere della psicologa

Tuttavia, la dottoressa commenta: “Che mi risulti, non esiste una letteratura sufficiente perché la ‘sindrome della capanna’ o ‘sindrome del prigioniero’ possa essere riconosciuta a livello scientifico. Può succedere, in effetti, che una persona si rifiuti di tornare al mondo esterno dopo un periodo di isolamento, ma bisogna ricordare che ogni cambiamento genera un livello di stress, e non tutti sono sempre pronti ad affrontarlo. Durante l’epidemia e l’isolamento siamo stati costretti a creare nuove routine e nuovi modi di vivere. In una parola, ci siamo dovuti adattare”.

Dall’isolamento alla socialità ritrovata: gli adolescenti tra le categorie più a rischio

Adolescente isolamento

bymuratdeniz/gettyimages.it

Con la dottoressa Bastelli, avevamo già discusso di come affrontare lo stress da quarantena e del ritorno alla “normalità”: nella fase 2: la psicologa aveva sottolineato come fosse prevedibile un aumento di stati d’ansia e anche di depressione, soprattutto tra le persone più fragili. Tenere a bada lo stress sia fisico che mentale, derivante dall’isolamento e dalle restrizioni, dovrà essere una priorità per ognuno, ma non tutti riusciranno a gestirlo nella stessa maniera e soprattutto con gli stessi tempi. “La nuova fase di riapertura che stiamo cominciando a vivere ci restituirà a una quotidianità ancora diversa, che richiederà un altro adattamento. Alcuni faranno più fatica di altri a gestirlo”, ci diceva infatti l’intervistata.

A distanza di qualche settimana da quelle interviste, possiamo aggiungere oggi che tra i soggetti più a rischio troviamo senz’altro gli adolescenti, che vivono l’isolamento e l’assenza forzata di socialità in modo molto più traumatico rispetto agli adulti. “La pandemia che stiamo vivendo ha stressato molto le famiglie, in particolar modo, all’interno delle stesse, la categoria degli adolescenti che, segregati in casa, hanno dovuto stravolgere le loro abitudini sociali, relazionali e sportive. Sono stati costretti a perdere quel senso di libertà necessario per costruirsi la propria identità fuori dal contesto familiare (in cui peraltro si stava così comodi durante l’infanzia), per inserirsi in una sorta di “famiglia alternativa”, costituita dal gruppo dei coetanei che viene normalmente vissuto a volte come sostitutivo, a tratti come contrapposto, alla famiglia di origine. Questa, infatti, mediamente ha regole e valori che l’adolescente ha bisogno di criticare e di mettere alla prova per costruire la propria identità adulta”.

Come sottolinea la psicologa, “il paradosso dell’adolescenza è legato alla voglia di autonomia e al bisogno di autoaffermazione da un lato, e dall’altro dalla paura di confrontarsi con il mondo esterno e di non essere sufficientemente in grado di gestire l’ansia da prestazione che deriva dalla perdita della protezione del contesto familiare dal quale si sceglie di allontanarsi per guadagnare l’autonomia tanto agognata. I genitori diventano indispensabili per aiutare il ragazzo a raggiungere un equilibrio fra il bisogno di vicinanza e la necessità di autonomia, fra il bisogno di dialogare e la tutela del diritto alla riservatezza del giovane. All’ambivalenza mostrata dall’adolescente rispetto al proprio bisogno di accudimento e il desiderio di emancipazione dai genitori deve corrispondere un atteggiamento di comprensione da parte degli adulti volto a fornire la possibilità offerta al giovane di negoziare la vicinanza e la lontananza”.

Aumentano gli attacchi di panico tra gli adolescenti

In questi ultimi mesi, continua Bastelli, sono aumentati gli attacchi di panico fra gli adolescenti, perché i ragazzi sono spaventati: “alcuni hanno paura di uscire, anche per effettuare una semplice commissione, spesso temono di contagiare gli adulti e non riescono a immaginare il futuro. Inoltre, è frequente che non possano usufruire degli spazi privati di cui avrebbero bisogno perché in epoca di pandemia sono tutti sempre presenti a casa. D’altro canto c’è chi, invece, nega il pericolo e sfida il rischio, e deve essere riportato al rispetto delle regole di distanziamento sociale e di adozione dei comportamenti protettivi indispensabili in epoca di emergenza sanitaria. Deve essere aiutato a capire che si possono mantenere contatti con gli amici, ma a distanza, utilizzando videochiamate o chat”. Da qui, spesso, nascono frustrazione e rabbia. 

Le nuove tecnologie e l’appagamento immediato

Adolescente chat

Motortion/gettyimages.it

C’è poi anche un’altra insidia, derivante dall’utilizzo dei social: “il pericolo è che l’appagamento che deriva dalle chat o dai giochi online provochi il circolo vizioso della dipendenza da queste tecnologie. Negli adolescenti, infatti, le variazioni rapide della dopamina, un neurotrasmettitore che regola il meccanismo della ricompensa, sono responsabili dell’impulsività e della ricerca di appagamento immediato, per questo è tipico di questa fase del ciclo vitale cercare di ripetere all’infinito le esperienze che alzano i livelli di dopamina. 

Il cervello dell’adolescente può sviluppare più facilmente dipendenze da sostanze o da comportamenti (videogiochi, chat, eccetera) che gli procurano piacere. Infatti se da un lato l’impulsività è legata alla scoperta dell’ignoto, alla ricerca, allo sviluppo della creatività e della produzione artistica, che spiegano il perché le scoperte alla base del progresso vengano il più delle volte effettuate dai giovani, dall’altra l’aumento dei livelli di dopamina, la sua rapida caduta e la conseguente ricerca da parte dei ragazzi di sentirsi su di morale, euforici, eccitati, possono spingerli a sperimentare comportamenti rischiosi che procurano piacere e che generano dipendenze. Adesso che stiamo approssimandoci ad uscire, dobbiamo tener conto che gli adolescenti durante il periodo della quarantena, con alti e bassi, hanno fermato un po’ il loro processo evolutivo, avendo sì rinforzato il legame con le famiglie d’origine rispetto al legame col gruppo dei coetanei, ma trovando in questo modo ostacolato lo svincolo adolescenziale”. 

Isolarsi per difendersi dal mondo esterno

lutto irrisolto negazione

Il periodo di isolamento forzato, spiega l’intervistata, può essere stato vissuto da alcuni come un isolamento autorizzato che ha consentito loro di evitare le sfide e i continui confronti della quotidianità. “Soddisfare le aspettative sul lavoro, in famiglia o nel gruppo di amici, gestire le relazioni e gli appuntamenti di una vita frenetica, infatti, può essere fonte di forte stress e ansie. Alcune persone, dunque, possono avere trovato nell’isolamento una modalità per gestire e proteggersi dalle proprie paure”.

Questa situazione, continua la dottoressa, riporta alla mente il fenomeno (più documentato a riconosciuto rispetto alla sindrome della capanna) degli Hikikomori, un termine giapponese che significa ‘stare in disparte’. “Viene utilizzato per riferirsi a quei giovani, non solo giapponesi, che rifiutano il confronto con la società, si chiudono nella propria camera ed evitano i rapporti sociali per lunghi periodi di tempo. Con il tempo questo disagio si è legato nell’immaginario collettivo all’abuso di nuove tecnologie, finendo però per confondere la causa con l’effetto. I ragazzi che scelgono l’autoreclusione, infatti, lo fanno per proteggersi dalle pressioni della società e ripararsi dal giudizio del mondo esterno”. 

Gli Hikikomori, però, accompagnano questi sentimenti di ansia e paura con quelli, schiaccianti, di impotenza e fallimento per le aspettative che sentono di non riuscire a soddisfare, specifica l’intervistata. “Per la diagnosi e la cura di questo disturbo è necessario l’intervento di uno psichiatra o comunque di uno specialista della salute mentale, in quanto spesso i trattamenti integrano psicoterapia individuale e familiare con cure farmacologiche”.

Quanti oggi faticano a tornare alla vita di tutti i giorni, però, possono anche semplicemente aver trovato un modo piacevole di approfittare del lockdown, conclude la dottoressa Bastelli: “per trascorrere tempo con la famiglia, ad esempio, o per riscoprire hobbies e passioni, per concentrarsi un po’ più su se stessi. Il pensiero di tornare alla frenesia di prima può spaventare, ma è sufficiente darsi del tempo per abituarsi alla nuova situazione. Questa è la principale differenza tra chi soffre della cosiddetta sindrome della capanna e gli Hikikomori o, ad esempio, chi soffre di agorafobia: mentre per questi ultimi sono necessari una diagnosi specialistica, un percorso psicoterapeutico e a volte anche un supporto farmacologico, la difficoltà che oggi molti vivono rappresenta una condizione transitoria, che necessita prima di tutto di dare il tempo alla propria mente di adattarsi alle nuove abitudini”.

 

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