Fase 2: l’allentamento delle misure potrebbe far rialzare la curva dei contagi?

Il 4 maggio 2020 ha segnato, in Italia, una data importante: quella del passaggio dalla cosiddetta “fase 1” dell’emergenza alla “fase 2”, che prevede un primo allentamento delle misure restrittive adottate dalle istituzioni con il Dpcm del 9 marzo. Il numero di persone positive al virus, tuttavia, resta ancora molto alto: la pandemia conta attualmente oltre 3 milioni di casi nel mondo, ed è per questo che il direttore generale dell’Oms, durante la conferenza stampa del 4 maggio, ha sottolineato la necessità di prestare, ora più che mai, una maggiore cautela, e adottare tutti gli accorgimenti possibili. Se è vero infatti che in molti Paesi, come il nostro, il quadro è in lento – ma netto – miglioramento, in altre zone del mondo i numeri stanno invece aumentando. 

Quali sono le misure necessarie per evitare ulteriori contagi e vivere questa “fase 2” in sicurezza? Ne abbiamo parlato con il dott. Fausto Francia, epidemiologo, Direttore sanitario del Centro Diagnostico Chirurgico Dyadea e Membro del Comitato Scientifico di UniSalute.

Fase 2 dell’emergenza: è troppo presto?

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Con il Dpcm del 26 aprile, il Governo ha introdotto una serie di novità, come la possibilità di andare a trovare i propri congiunti o di tornare a fare sport all’aria aperta, sempre nel rispetto delle regole di distanziamento sociale

In queste ultime settimane, si è discusso molto riguardo alla ripartenza dell’Italia, in particolare all’interno della comunità scientifica, che teme che la ripresa della mobilità possa scatenare una seconda ondata di contagi. Infatti, nonostante la curva dei contagi grazie al lockdown si sia notevolmente abbassata, i casi attualmente positivi in Italia sono 91.528 (dati aggiornati al 6 maggio), un numero ancora elevato. Per queste ragioni, si è deciso di mettere in atto una graduale apertura: le prossime settimane saranno quindi decisive per comprendere l’evoluzione dell’emergenza. Lo stesso Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, durante la conferenza stampa del 26 aprile, ha confermato che siamo ben lontani dal ritenerci fuori pericolo: “Dobbiamo essere consapevoli che c’è il rischio che la curva del contagio possa risalire, per questo sarà ancora più importante mantenere le misure di sicurezza”. 

Stando a queste affermazioni, è troppo presto per una riapertura? Il dott. Francia spiega che dobbiamo considerare la situazione di partenza dell’Italia, quando sono scoppiati i focolai d’infezione in alcune aree del Nord attorno al 20 febbraio, e confrontarla con quella attuale. “Quando è cominciata l’epidemia, il nostro Paese era completamente impreparato alla gestione dell’emergenza. Avevamo pochi posti in rianimazione, i medici non conoscevano l’evoluzione della malattia e si trovavano di fronte a dei quadri gravi clinici difficilmente spiegabili. Inoltre, non c’era nessun servizio territoriale pronto e in grado di intervenire tempestivamente con i tamponi, che erano quindi contingentati: se ne potevano fare infatti poche decine al giorno, e non c’erano i test sierologici. In più, la gente non sapeva come comportarsi”. La situazione era piuttosto critica, come ha evidenziato il dott. Francia, mentre oggi, “anche se un numero ancora alto di persone è positivo al virus, è sicuramente più gestibile”. Infatti, come spiega il medico, sono stati creati reparti interamente dedicati ai pazienti con Covid-19 e si ha a disposizione un numero molto più elevato di posti in terapia intensiva. Inoltre, “come medici, abbiamo imparato a gestire meglio la malattia. Ad esempio, si è capito che va aggredita immediatamente. Nel momento in cui un paziente accusa i sintomi, in particolare la febbre, lo si sottopone a una terapia antivirale, mentre inizialmente si aspettava. Oggi questi errori non vengono più fatti, perché si conosce meglio il virus”. In conclusione, per il medico “il Paese è molto più preparato, quindi ritengo che, certamente i rischi ci sono, ma a mio parere riusciremo a gestirli”.

Cosa vuol dire R0? Perché è così importante monitorare questo dato?

coronavirus cura

Dallo scoppio dei focolai nel Nord Italia, le istituzioni hanno tenuto monitorato con estrema attenzione l’andamento della curva dei contagi, che nelle ultime settimane ha registrato un decremento lento ma costante, permettendo una graduale ripartenza. Come è stato più volte ribadito dallo stesso Conte e dal Presidente dall’Istituto Superiore di Sanità Silvio Brusaferro, infatti, se i contagi dovessero risalire, verranno adottate delle nuove misure di stop per alcune aree o regioni. Per questa operazione di monitoraggio è fondamentale tenere sotto controllo ogni 15 giorni R0 (R con zero), ossia il “numero di riproduzione di base”. Come spiega il dott. Francia, “R con zero è la misura della trasmissibilità della malattia. Quando R con zero è sotto 1, vuol dire che non avviene più neanche il passaggio del virus tra una persona all’altra, e quindi la probabilità di contagio è ancora al di sotto”. Questo valore è dunque importantissimo, perché costituisce la prima “soglia sentinella”, che permette alle istituzioni di monitorare l’andamento epidemiologico in Italia. 

In Lombardia, ossia la regione italiana più colpita, l’indice di R0 ha raggiunto il suo massimo di 3 tra il 17 e il 23 febbraio, per poi diminuire nelle settimane successive, grazie all’adozione delle misure di contenimento, a livello locale e nazionale. A fotografare l’andamento del primo mese dell’epidemia in Italia è un articolo dei ricercatori dell’Iss e della Fondazione Bruno Kessler di Trento, che hanno analizzato i dati del sistema di sorveglianza nazionale fino al 24 marzo e applicato dei modelli matematici per stimare l’andamento di R0 in varie regioni. Sempre in Lombardia, il 5 maggio il vicepresidente Fabrizio Sala ha annunciato che, calcolando i dati insieme ai ricercatori, il valore di R0 sarebbe di 0,75, mentre in Italia si aggira attorno a 0,80.

Ma se R con zero è al di sotto di 1, significa che siamo fuori pericolo? “Possiamo dire non che è eliminato il fattore di rischio, ma che è chiaramente sotto controllo, perché se un paziente con Covid-19 non è in grado di infettare un altro, possiamo attenderci dei focolai locali, ma non una diffusione totale nella popolazione” spiega il dott. Francia. “Se va sopra 1, c’è invece il rischio che si ripresentino delle situazioni simili a quelle che abbiamo vissuto. Quindi, l’obiettivo è di tenere questo R con zero sotto 1, per impedire la riaccensione dell’epidemia. Se fosse 0, vorrebbe dire che l’epidemia si sarebbe estinta”. 

Riapertura dei parchi: è una buona idea o potrebbe favorire il contagio?

Covid parchi
Nell’ultimo decreto, una grande novità è stata quella della riapertura dei parchi pubblici, consentendo quindi alle persone di fare una passeggiata all’aria aperta, anche se con alcuni accorgimenti, come l’uso delle mascherine e del rispetto della distanza di sicurezza. Per il dott. Francia si tratta di una notizia positiva, soprattutto considerando che il movimento fisico è importantissimo per la salute – fisica ma anche mentale – delle persone, in particolar modo per la prevenzione di alcune patologie, da quelle cardiache al diabete. “Bisogna conciliare la tutela della sicurezza dei cittadini, evitando quindi il contagio, e quella più generale della salute, facendo in modo che non insorgano altre problematiche. La sanità pubblica è fatta di scelte che devono trovare un loro equilibrio”. Per il momento, l’uso dei giochi pubblici per bambini e panchine è stato interdetto in molte città, “perché possono diventare un veicolo di trasmissione della malattia, e quindi ancora per qualche settimana non potranno essere utilizzate. Per quanto riguarda le igienizzazioni ambientali, sono più un segnale per tranquillizzare la popolazione, ma francamente sono poco efficaci”.

Rischio della seconda ondata: è possibile?

Come abbiamo visto, il rischio di una possibile seconda ondata è concreto. In particolare, i CDC americani (Centers for Disease Control and Prevention) lanciano l’allarme anche per il prossimo inverno, temendo che un assalto del virus durante la stagione dell’influenza possa creare una situazione ancora più critica. “Questo pericolo c’è” spiega Francia, “perché per tutti i precedenti casi di pandemia si è sempre verificata un’ondata di ‘rimbalzo’. Inoltre, questo è un virus che interessa soprattutto il tratto respiratorio, quindi il freddo – anche se anche col caldo sembra che non si attenui più di tanto – facilita il suo ingresso nelle vie respiratorie”. Durante l’inverno, continua a spiegare, l’influenza stagionale potrebbe creare due possibili effetti: 

  • quello di contribuire a riempire gli ospedali, dal momento che “ogni anno circa 8.000 persone muoiono a causa dell’influenza. Se a questi sommiamo i possibili decessi dovuti a un eventuale picco di coronavirus, capiamo subito che potrebbe crearsi una situazione di grande difficoltà”;
  • l’effetto “confondimento”: dal momento che i sintomi da Covid-19 sono simili a quelli influenzali, sarà difficile capire se una persona con febbre e tosse avrà contratto una semplice influenza oppure il nuovo Coronavirus.

“Dobbiamo cercare di eliminare tutti i possibili fenomeni di confondimento”, commenta dunque il dottore Francia. “Dal momento che per il Coronavirus probabilmente non avremo un vaccino prima novembre, mentre dell’influenza sì, può essere opportuno vaccinarsi. In questo modo, la febbre diventa un segnale d’allarme importante in una persona che è stata vaccinata”. 

Quali sono le misure necessarie per continuare a contenere i contagi?

Covid mascherine distanziamento
Data l’importanza di questo valore, quali sono le misure necessarie per fare in modo che l’andamento della curva epidemiologica, in Italia, continui a rallentare e per evitare il rischio di una seconda ondata? Il Direttore Generale dell’Oms ha spiegato che “il nostro impegno comune a misure di base come la pulizia delle mani e l’allontanamento fisico non può essere rilassato”. Un’attenta igiene delle mani e delle superfici, assieme al distanziamento sociale, rimangono quindi le prime misure per cercare di contrastare il contagio.

Tuttavia, oltre a queste, molte regioni, come Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna, hanno reso obbligatorio indossare le mascherine, soprattutto per accedere a luoghi pubblici chiusi, come supermercati e piccoli negozi. “All’inizio dell’epidemia, le mascherine non venivano consigliate per un semplice motivo: non ce n’erano a sufficienza. Quindi, quelle che c’erano venivano indirizzate giustamente verso le strutture sanitarie e assistenziali, dove il rischio era maggiore. Alle persone, dunque, nella prima fase era consigliato soprattutto di stare in casa” spiega il medico.

In questa fase è importante indossare le mascherine per cercare di rompere la catena di contagio? “Oggi, data la notevole disponibilità di mascherine, soprattutto quelle chirurgiche, è giusto portarle, perché impediscono non tanto di ammalarsi, quanto di trasmettere la malattia agli altri. Quindi, se due persone indossano la mascherina chirurgica sappiamo quasi sicuramente che nessuna delle due trasmetterà la malattia all’altro, e questo è un ulteriore elemento di cautela che viene introdotto”. 

Mascherine fai da te: sono sicure?

Data la diffusione della pandemia a livello globale e, in alcuni casi, alla difficoltà del reperire le mascherine chirurgiche, i CDC americani invitano la popolazione, in un documento pubblicato online, a non sprecarle e a utilizzare invece sciarpe, foulard o mascherine in tessuto di fattura casalinga. Lo stesso è proposto dall’ECDC (European Centre for Disease Prevention and Control) che afferma, come riportato dal nostro Ministero della Salute: “si può prendere in considerazione l’uso di mascherine facciali non mediche realizzate con vari tessuti, specialmente se – a causa di problemi di fornitura – le mascherine mediche devono essere utilizzate prioritariamente come dispositivi di protezione individuale da parte degli operatori sanitari”. A questo proposito, il dott. Francia commenta: “ho qualche dubbio circa la loro affidabilità. Ma se non si ha a disposizione una mascherina normale, è sempre meglio indossare una sciarpa, un foulard o una mascherina di stoffa fai da te, che in qualche maniera protegge e aiuta a rallentare la diffusione del virus”. 

Tracciare, isolare e testare: le parole d’ordine della Fase 2

coronavirus inquinamento
Se un’accurata pulizia delle mani, il distanziamento di almeno un metro e l’uso corretto della mascherina sono misure che rimandano alla responsabilità individuale, per la fase 2 gli esperti sottolineano come sarà fondamentale il lavoro dei singoli organi regionali per ridurre la diffusione della malattia, in particolare per quanto riguarda il tracciamento dei contatti (contact tracing). Il Direttore Generale dell’Oms ha detto, infatti, che sarà fondamentale “trovare, isolare, testare e curare ogni caso e tracciare ogni contatto” per ricostruire con quali individui siano entrati in contatto persone infette e, di conseguenza, quanti siano esposti al rischio di contagio. Un efficace tracciamento consentirebbe di, nel caso si creino dei nuovi focolai d’infezione, intervenire in tempo reale isolando i casi e applicando, se necessario, nuove chiusure. 

Per facilitare questa delicata operazione, oltre ai numerosi tamponi e ai test sierologici a campione, anche nel nostro Paese è stata proposta un’app che consenta di tracciare digitalmente i movimenti e i contatti dei futuri contagiati. In pratica, ogni smartphone su cui l’applicazione sarà stata installata emetterà periodicamente un codice identificativo univoco e anonimo, che verrà captato dagli altri smartphone che si trovano nelle vicinanze, entro qualche metro, e che utilizzano la stessa tecnologia. Nel caso in cui una persona dovesse segnalare di essere positiva al virus, l’app permette di avvisare le altre persone con cui si è stati in prossimità nelle giornate precedenti. Questo sistema sarà scaricabile su base volontaria, e sarà disponibile probabilmente dalla fine di maggio.

Ma è una misura effettivamente necessaria per ricostruire la catena dei contagi e poter intervenire tempestivamente? Per il dott. Francia si tratta di un metodo un po’ troppo invasivo, che rischia di creare un pericoloso effetto boomerang: “se a un paziente diciamo che, ad esempio, per dieci minuti è stato a quattro metri da una persona con il coronavirus, il rischio è quello di creare delle situazioni di panico immotivate. Credo che sia più efficace un’attenta indagine epidemiologica da parte del medico e della sanità pubblica, per capire con chi una persona sia effettivamente entrata in contatto. Per noi, infatti, la persona che ti passa vicino a due metri positiva al coronavirus e va per la sua strada è considerata un ‘non rischio’. Si considerasse come ‘rischio’, infatti, per ciascuna persona positiva al coronavirus bisognerebbe fare un numero estremamente elevato di tamponi”. 

In conclusione, per il medico la tecnologia può essere un aiuto, ma sicuramente non è un fattore decisivo: in questa fase restano importanti il comportamento dei singoli e il rispetto le misure che conosciamo bene, ma anche un’attenta operazione di controllo e monitoraggio da parte delle istituzioni.

 

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