Il lato oscuro di Shein: operai ammassati e turni di 12 ore per realizzare i nostri “sogni” di poliestere

Fino a pochi anni fa uno dei problemi legati al consumismo era la fast-fashion con negozi fisici e online che offrivano collezioni appetibili a prezzi accessibili. Oggi il dilemma si definisce in ultra-fast-fashion e il pensiero corre a un brand di 5 lettere: SHEIN.

Un impero già valutato in 15 miliardi di dollari nel 2020 era e oggi calcolato in 100 miliardi di dollari da Bloomberg, grazie alla raccolta di nuovi finanziamenti da General Atlantic, Tiger Global Management, IDG e Sequoia Capital China. Non solo vale più di Zara e H&M messe insieme ma è l’e-commerce più popolare al mondo in oltre 220 Paesi.

Ma chi paga il prezzo di questo boom? Come sempre accade in queste realtà di “moda” veloce sono i lavoratori che si occupano di assemblare le collezioni di questo gigante, in condizioni inimmaginabili.

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Le condizioni dei lavoratori

Una delle domande ricorrenti e che trova facile risposta è da dove arrivano questi capi e a quali condizioni vengono prodotti. L’organizzazione indipendente Public Eye nel 2021 ha condotto un’inchiesta per provare a fare luce sul suo lato più oscuro sul mondo che si cela dietro questo colosso del taglia e cuci last minute.

I ricercatori hanno individuato 17 aziende fornitrici, 7 sono dislocate tra i vicoli tortuosi nel distretto di Panyu, nella provincia di Guangzhou, diventato il centro di produzione dal 2015. È qui, circa 100 km a nord di Hong Kong, che migliaia di lavoratori cinesi provenienti da altre provincie arrivano con la necessità di racimolare quanti più soldi possibili per sfamare la propria famiglia. Alcuni hanno anni di esperienza alle spalle, altri invece pochi mesi.

Accettano di trascorrere fino a 12 ore al giorno a tagliare e a assemblare tessuti per realizzare i sogni in poliestere dei più giovani. Altri lavorano nei reparti del controllo qualità e confezionamento oppure stirano. Alcuni laboratori ospitano oltre 200 persone stipate in locali senza uscite di emergenza e con finestre sbarrate, la sicurezza sul lavoro non è proprio la priorità. Alcuni poster indicano come la ditta sia fornitrice di Zoetop, capace di produrre 1,2 milioni di capi di abbigliamento giornalieri.

I pochi che hanno concesso le interviste hanno parlato dei turni di lavoro in alcune fabbriche: dalle 8:00 alle 12:00; dalle 13:30 alle 17:45; dalle 19:00 alle 22; un solo giorno libero al mese. La regolare settimana lavorativa cinese, invece, prevede un massimo di 40 ore settimanali, straordinari per non oltre 36 ore mensili e almeno un giorno libero alla settimana.

Esistono poi anche subappaltatori e una sorta di borsino: alcune compagnie sono addette alla rifiniture, altre alle realizzazioni più complesse. Di conseguenza la manodopera, pagata a cottimo, guadagna cifre diverse a seconda delle competenze, di dove lavora e di cosa realizza. Per le gare di appalto non si disdegna l’uso di WeChat.

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Offerte lampo per un pubblico volubile

Il target di riferimento è quello della Generazione Z, la stessa che scende in piazza per l’ambiente e per protestare contro lo sfruttamento estensivo delle riserve del pianeta. Vero o no i guadagni di questo gruppo sono innegabilmente ingenti, sostenuti da un’immagine pop e dal web marketing persuasivo per promuovere linee di abbigliamento disponibili nelle vetrine virtuali il tempo di una storia su Instagram: capi sintetici dal costo talmente irrisorio che non vale nemmeno la pena indossare due volte. Sorge il dubbio che in una realtà così attiva le figure centrali siano quelle degli analisti per captano velocemente le tendenze o meglio le preferenze.

Chi c’è dietro il marchio cinese?

La start up del Sol Levante appare nel 2008 con il nome di SheInside. Chris Xu o YangTian Xu, un imprenditore americano di origini cinesi laureato in economia all’Università di Washington, abbandona il desiderio di realizzare abiti da sposa e rileva il marchio nel 2015 che ribattezza in Shein. Parte in sordina la vendita online di abiti rivolti a un mercato esterno alla Cina per “offrire a donne e adolescenti l’opportunità di indossare le ultime tendenze a prezzi democratici”. Dalle pochissime informazioni sul sito ufficiale, l’azienda farebbe capo a due realtà private: l’irlandese Infinite Styles Ecommerce Co. Ltd. attiva dal 7 ottobre 2020 e la Roadget Business Pte. Ltd., costituita il 22 novembre 2019 con sede a Singapore. Per Ethical Consumer la proprietà è della Zoetop Business Co. Ltd con sede a Hong Kong. Ad ogni modo Mr. Xu è entrato classifica dei nuovi “billionaire” di Forbes con un patrimonio netto di 5.4 miliardi di dollari.

Un brand in cerca di una nuova reputazione

Uno dei valori intangibili più importanti per aziende e imprenditori è quello della reputazione e vale anche per questa compagnia che vuole far scordare alcuni episodi poco edificanti. Realizzazioni copiate a designer emergenti, altre di dubbio gusto come il ciondolo con svastica buddista o i tappetini frangiati per la casa incredibilmente ispirati a quelli musulmani da preghiera. Oggetti prontamente rimossi con tanto di scuse via social.

Immancabile una carta dei valori aziendali “da manuale” una presenza nel mondo della moda che conta a partire dall’evento live durante la fashion week parigina del 2019 fino all’ultimo evento nell’elegante cornice londinese di Covent Garden.

Celebrity Shein

Nel maggio 2020 è stato lanciato l’evento in streaming SHEIN Together in favore del Covid-19 Solidarity Response Fund for the World Health Organization con una parata di star come Katy Perry, Lil Nas X, Rita Ora, Hailey Bieber. Assicurata una donazione di 100.000 dollari a questo fondo oltre al 100% dei guadagni dalle vendite della t-shirt #SHEINtogether.

E ancora la SHEIN X 100K CHALLENGE, una sfida tra stilisti emergenti per aggiudicarsi 100.000 dollari e la possibilità di esporre sul sito-vetrina al giudizio insindacabile di celebrities e stilisti nati da talent d’oltreoceano. Una versione Y2K dei programmi di Heidi Klum, Project Runway e Making the Cut.

Un nuovo modello di business?

Considerati i volumi di crescita del marchio è chiaro che sti sta affermando un nuovo modello di business fagocitante: la figura degli stilisti viene svilita, solo il 6% dell’inventario rimane in stock per 90 giorni, la gran parte dei resi diventa immediatamente spazzatura perché il costo di re-immissione in commercio non vale la pena.

La comodità di acquistare dallo smartphone capi usa e getta a prezzi irrisori per scimmiottare un guardaroba alla moda e infinito come quello di molte influencer vale davvero la salute del pianeta? È possibile giustificare in questo modo l’enorme quantità di emissioni nocive che questo tipo di mercato, che oggi ha in Shein l’esempio più eclatante, genera contribuendo a danneggiare la tenuta dell’ambiente?

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FONTI: Ethical Consumer/Forbes/Public Eye/Centro per la moda sostenibile

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